Un cane è morto di Pablo Neruda |
Il mio cane è morto.
Lo sotterrai nel giardino insieme ad una vecchia macchina ossidata. Lì, non più sotto, ne più sopra, si unirà con me un giorno. Ora ormai se ne è andato col suo pelame, la sua maleducazione, il suo naso freddo. Ed io, materialista che non crede nel celeste cielo promesso per nessun umano, per questo cane o per ogni cane credo nel cielo, sì, credo in un cielo dove io non entrerò, però lui mi attende ondulando la sua coda di ventaglio perché io al giungere abbia amicizie. Ahi, non dirò la tristezza sulla terra di non averlo più per compagno perché mai fu per me un servitore. Ebbe verso me l’amicizia di un riccio che conservava la sua sovranità, l’amicizia di una stella indipendente senza più intimità dell’essenziale, senza esagerazioni: non si arrampicava al mio vestiario coprendomi di peli o di acari, non strofinava contro il mio ginocchio come altri cani ossessivi. No, il mio cane mi guardava dandomi l’attenzione necessaria, l’attenzione necessaria a far comprendere a un vanitoso che essendo cane lui, con quegli occhi, più puri dei miei, perdeva il tempo, ma mi guardava con lo sguardo che mi riservò tutta la sua dolce, la sua pelosa vita, la sua silenziosa vita, vicino a me, senza mai importunarmi, e senza chiedermi nulla. Ahi quante volte volli avere coda andando unito a lui per le rive del mare, nell’Inverno di Isla Negra, nella grande solitudine: in alto l’aria trapassata di uccelli glaciali e il mio cane che saltava, irsuto, colmo di voltaggio marino in movimento: il mio cane vagabondo e fiutante inalberando la sua coda dorata fronte a fronte all’Oceano e alla sua spuma. Allegro, allegro, allegro come i cani sanno essere felici, senza nient’altro, con la tirannia della natura sfrontata. Non c’é addio al mio cane che è morto. E non c’é né ci fu menzogna tra di noi. Già se ne andò e lo interrai, e questo era tutto. (tratto da Obras Completas, Editorial Losada, Buenos Aires 1973, traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli) |
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