L’acqua non è una merce ma un bene comune che appartiene a tutti e al quale corrisponde un diritto «universale e inalienabile». Per questo la sua gestione non può obbedire solo alle ragioni del mercato, né può essere affidata esclusivamente al settore privato: al contrario, ha bisogno di «un controllo democratico» e «partecipato», che «va promosso tramite una cittadinanza attiva, in un confronto serrato con le stesse istituzioni pubbliche». E’ quanto ha affermato – riferisce L’Osservatore Romano - il vescovo Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, aprendo ieri a Roma la giornata di studio sul tema «Dammi da bere» con un forte richiamo alla centralità della questione idrica per il futuro dell’umanità e per lo sviluppo integrale dei popoli. «Il diritto all’acqua — ha ricordato all’incontro promosso dall’associazione Greenaccord con il sostegno della provincia di Roma — promana dal diritto primario alla vita». Ne deriva che «l’acqua ha una tale rilevanza sociale per cui gli Stati non possono demandarne la gestione ai soli privati». A riprova del fallimento delle politiche di approvvigionamento e distribuzione dell’acqua ispirate a «un criterio esclusivamente economico e privatistico», il presule ha citato il caso di Paesi come la Colombia, le Filippine, il Ghana, le cui capitali sono sprovviste di un’adeguata rete idrica pubblica. In quelle città — ha fatto notare mons. Toso — il costo dell’acqua, fornita da privati con autobotti, è da tre a sei volte superiore a quello di metropoli come New York e Londra. «Si giunge al paradosso — ha denunciato — che i poveri pagano molto più dei ricchi per quello che dovrebbe essere un diritto universale: l’accesso ad acque potabili».
A ciò si aggiunge il conflitto, «drammatico e a volte persino violento», destinato a esplodere quando diverse popolazioni attingono per la loro sussistenza alle stesse risorse idriche. È il caso, per esempio, della regione del Nilo, dove i Paesi a monte sono costretti a tener conto delle necessità di quelli a valle nell’utilizzo e nell’amministrazione dell’acqua. «Secondo molte analisi strategiche — ha messo in guardia il vescovo — in futuro, dopo le guerre per il petrolio che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, assisteremo a nuove guerre per l’acqua». D’altra parte, lo stato di salute idrico del pianeta risulta già oggi allarmante. Le cifre fornite dal segretario di Giustizia e Pace sono eloquenti nella loro drammaticità. Un miliardo di persone non ha accesso ad acque potabili sicure. A causa dei cambiamenti climatici, a questo numero potrebbero aggiungersi entro il 2050 altri 2 miliardi e 800 milioni di individui. Secondo le previsioni, dal 5 al 25 per cento degli usi globali di acqua dolce probabilmente supererà nel lungo termine le forniture disponibili e perciò circa la metà della popolazione mondiale entro il 2025 sarà destinata a dover fronteggiare le conseguenze della scarsità di acqua.
Le ripercussioni di questa situazione sono evidenti soprattutto nei Paesi più poveri. Secondo il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente The greening of water law: managing freshwater resources for people and the environment (New York, 2010), circa 2,5 miliardi di persone nel mondo — quasi la metà della popolazione in via di sviluppo — vivono in condizioni sanitarie precarie. A causa di ciò, ogni anno circa 1,8 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni muoiono per malattie diarroiche (come colera, tifo e dissenteria) attribuibili all'assenza di acqua potabile, oltre che dei servizi sanitari di base. In realtà — ha spiegato Toso — i poveri soffrono spesso non tanto per la scarsità di acqua in sé, quanto «per l’impossibilità economica di accedervi», come mette in luce anche il rapporto del 2006 del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) intitolato Beyond scarcity: Power, poverty and the global water crisis. Secondo l’impostazione «neoliberista» di molte politiche di gestione idrica, infatti, «l’acqua sarebbe un bene economico come altri, il cui valore di scambio o prezzo dovrebbe essere fissato secondo le comuni regole della domanda e dell’offerta, e in definitiva secondo la logica del profitto». Una teoria in base alla quale «il costo di tutto ciò che si usa deve essere a carico del consumatore, di colui che trae utilità dall'uso». Ma è chiaro che in questa prospettiva — ha evidenziato il vescovo — «persino i più poveri dovrebbero “pagare” per l'accesso ai cinquanta litri di acqua potabile considerati dall'Organizzazione mondiale della sanità la quantità giornaliera minima indispensabile per la sussistenza».
A questo proposito sono illuminanti le parole della Caritas in veritate: «Il diritto all'alimentazione, così come quello all'acqua — scrive Benedetto XVI — rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l'alimentazione e l'accesso all'acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni». Lo stesso Compendio della dottrina sociale della Chiesa ricorda che «l'acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale», così da provvedere «al soddisfacimento del bisogno di tutti e soprattutto delle persone che vivono in povertà». Proprio a partire da queste indicazioni mons. Toso ha chiesto alla comunità mondiale un impegno nella gestione delle risorse idriche che vada al di là della semplice disponibilità alla cooperazione. A giudizio del presule, manca oggi a livello internazionale «l’affermazione preliminare dell’esistenza di un diritto fondamentale ed inalienabile all’acqua»; e sembra lontana, inoltre, «l’esistenza di una autorità politica che sappia mediare gli interessi in gioco e far rispettare il diritto nell’orizzonte del bene comune di tutti i popoli e le persone». Due carenze da colmare al più presto, anche perché il diritto all’acqua — ha ricordato — è «la base per il rispetto di diversi altri diritti fondamentali», quali il diritto a «godere di uno standard di salute migliore possibile», il diritto «a una alimentazione sufficiente e sana» e il diritto «a una vita dignitosa».